La tribù Penan, gli indigeni del Borneo
Popolazioni indigene che vivono in simbiosi con la foresta. Giovani guerrieri che cacciano nel pomeriggio la loro cena.
Donne che puliscono uno ad uno pesci appena pescati. Saggi anziani che curano le loro ferite con radici e foglie raccolte nella giungla.
Tutto questo rappresenta la realtà del Borneo in Malesia. Una realtà che è possibile vedere, toccare con le proprie mani, per portarla dentro di se per sempre.
Passare dei giorni tra la Tribù Penan, una delle popolazioni indigene del Borneo presenti nello stato del Sarawak, è un’esperienza singolare, un valore aggiunto al viaggio.
I Penan gli indigeni della foresta tropicale più antica al mondo
Ad oggi si contano circa 10.000 individui appartenenti alla tribù Penan.
Suddivisi in più villaggi abitano l’antica foresta del Sarawak, che con i suoi 150.000 anni batte ogni record di vecchiaia.
I Penan non sono l’unica etnia indigena del posto, infatti si contano altre duecento tribù, tutte raggruppate sotto il nome di Dayak, dal malese “orang-dajak”, ovvero uomini dell’entroterra.
Alcune di queste popolazioni sono famose per essere cacciatori di teste, come il popolo Iban, altri per essere formidabili coltivatori.
Le tribù Penan vivono nell’entroterra del Borneo malese dedicandosi alla caccia e al raccolto.
Come la tribù Penan sopravvive nel Borneo malese
Questa popolazione di indigeni del Borneo costruisce i propri villaggi nell’entroterra, in prossimità delle rive dei fiumi.
Le loro abitazioni sono palafitte costruite principalmente in legno, dove non ci sono materassi per dormire ne toilette agibili.
La caccia, la pesca e il raccolto per i Penan rappresentano la sopravvivenza. Le loro prede preferite durante la caccia sono cinghiali, maiali barbuti, scimmie, uccelli e scoiattoli.
L’arma utilizzata durante la caccia è il keleput, una cerbottana leggera e precisa che usano con una semplicità disarmante.
I proiettili sono dardi con punte avvelenate, che non lasciano scampo alla vittima. Il veleno, chiamato il “tajem”, proviene dal lattice delle cortecce di alberi appartenenti alle famiglie delle Moraceae.
Il suo veleno agisce direttamente sul cuore, provocando aritmie mortali, lasciando alla preda pochi istanti di vita.
Negli animali più grossi, come i maiali barbuti, le tossine agiscono lentamente. Per questo una volta colpiti hanno ancora energie per scappare, ma i Penan, seguendo l’animale con pazienza e passo leggero, assistono al crollo della vittima, che avviene a distanza di minuti.
Purtroppo non siamo riusciti ad assistere a nessuna scena di caccia. Persone inesperte per loro rappresentano solo possibili rumori, che spaventerebbero le prede.
Abbiamo invece potuto assistere ad una seduta di pesca, durata quasi l’intero pomeriggio, per procurarsi il cibo necessario per la cena.
L’attrezzatura necessaria alla tribù Penan durante la pesca è composta da una lunga rete, fiocine, maschere e uno piccolo zainetto in legno per riporre attrezzi e bottino.
La scelta del luogo ideale per la pesca è fondamentale, per questo a volte è necessario camminare delle ore prima di raggiungere il punto migliore.
I Pennan, come ogni popolazione indigena della Malesia, si muove nella foresta con un’agilità e una velocità che per un visitatore rimane difficile da mantenere. In perfetta sintonia captano ogni rumore e movimento intorno a loro.
Valutato l’angolo di fiume in cui immergersi ha inizio la seduta di pesca. La prima azione intrapresa dal capogruppo è stata quella di aprire la rete e stenderla lungo l’intera larghezza del fiume, da argine ad argine.
Poi i ragazzi più giovani si allontanano lungo la sponda del fiume per reimmergersi a una decina di metri di distanza. Da qui rumorosamente procedono verso la rete, gettando sassi sul fondale e muovendosi allineati.
Il loro intento, generando rumore e caos, è quello di spingere i pesci verso la rete, dove rimangono intrappolati. Appena pescati vengono aperti e ripuliti, prima di essere riposti nello zaino.
Con le maschere i Penan ricercano i punti in cui i pesci creano piccoli branchi, come sotto le radici degli alberi vicino alle sponde, per rendere la pesca più proficua.
Una battuta di pesca può durare anche più di 4 ore, dove i partecipanti passano la maggior parte del tempo immersi nel fiume, e anche i più piccoli si rendono utili.
I bambini Penan, i piccoli indigeni del Borneo malese
I piccoli della tribù Penan sono bambini sorridenti, che si impauriscono davanti ad una fotografia fatta dallo straniero, ma allo stesso tempo, coraggiosi, seguono i genitori durante la caccia.
Fin da piccoli i bambini si rendono utili nelle attività familiari. Seguono spesso i genitori durante gli atti di pesca, dedicandosi alla pulizia del pesce o al raccolto delle erbe necessarie per la cucina.
Da non molto i Penan hanno costruito scuole per formare i loro figli. I più fortunati avranno la possibilità di avere una scuola nel proprio villaggio, mentre altri piccoli dovranno camminare per molti chilometri prima di raggiungere quella più vicina.
I bambini più piccoli della tribù giocano scalzi nella foresta come se fosse il loro parco giochi. Non hanno paura di ciò che possono incontrare, ma temono la presenza di un uomo diverso, dello straniero.
Alcuni di loro scappano davanti alla presenza di uno sconosciuto, per soffermarsi ad osservarlo dietro un angolo o dallo spiraglio di una porta. Un misto di timore e curiosità li pervade.
La tribù Penan del Borneo malese, un popolo in pericolo
La foresta del Borneo da anni sta subendo un forte trauma a causa della deforestazione. Il governo del Sarawak, non riconoscendo i diritti delle popolazioni indigene del Borneo, ha favorito lo sfruttamento delle terre per la produzione di legname.
Negli anni ’70 è iniziata la distruzione delle foreste per il taglio del legname, la coltivazione di piantagioni di olio di palma e la costruzione di dighe idroelettriche. I bulldozer hanno distrutto ciò che per gli indigeni del Borneo significa “vita”
Per aiutare queste tribù è nata la fondazione Bruno Manser.
Fondo Bruno Manser
Fondato nel 1991, il fondo Bruno Manser senza scopo di lucro, registra 4000 membri.
Manser nasce nel 1954 a Brasilea. All’età di trent’anni decide di passare sei anni, dal 1984 al 1990, nella foresta del Borneo insieme alla tribù Penan.
Si integra perfettamente con uno stile di vita che lui reputa molto vicino al suo, un ritorno alle origini. Ma si rende conto che questo mondo era in pericolo e lui non voleva rimanere inerte a guardare.
Con continui blocchi stradali, in forma pacifica, ostacola il più possibile le azioni di deforestazione, salvando quell’area di foresta ancora incontaminata.
Manser sfruttava molto la capacità dei media nel diffondere notizie, per far conoscere al mondo il giro di interessi corrotto che influenzava il disboscamento del Sarawak.
La fondazione, con una stretta alleanza con i Penan, riescono a lottare contro la deforestazione del loro habitat.
Ma nel 2000 accade l’inaspettato, Manser scompare nel nulla. Improvvisamente si perde ogni traccia di questo grande uomo, leggende narrano che sia stato inghiottito dalla foresta, ma la vera realtà dei fatti non si scoprirà mai.
I più realisti temono sia stato un omicidio ordinato dal governo malese, per eliminare la fonte dei loro problemi.
Ma nonostante questo la fondazione Bruno Manser ancora oggi fortunatamente tieni fissi i suoi obiettivi
- Rispetto dei diritti umani delle popolazioni indigene
- Conservazione delle foreste e della loro biodiversità
- Documentare la cultura indigena dei Penan
- Assistere la popolazione Penan con aiuti nei settori della salute, istruzione e nelle infrastrutture come asili, condutture idriche e ponti.
La nostra esperienza
Dopo i primi giorni, passati lungo la costa alla scoperta del Bako national park e dei suoi animali, ci dirigiamo verso il cuore della foresta.
Il nostro primo obiettivo è raggiungere l’aeroporto di Long Lellang, piccolo villaggio a 570 chilometri a nord-est di Kuching. Voliamo su un piccolo aeroplano che ospita massimo una quindicina di persone.
Grandi pale a vista sulle ali dell’aereo e una cabina di pilotaggio inesistente ci allarmano, ma una volta decollati ha inizio la vera magia.
Affacciati al finestrino rimaniamo affascinati dalla meravigliosa vista, la foresta incontaminata del Borneo malese si estende sotto di noi. Una distesa infinita di folti alberi, interrotti unicamente da imponenti fiumi marroni e sinuosi, compongono questo territorio magico.
Atterriamo su una lunga colata di cemento, che solo lontanamente ricorda una pista di atterraggio o un aeroporto. Scaricano le valigie passandole direttamente nelle mani dei legittimi proprietari.
La nostra guida, signore di 45 anni tatuato sulle braccia e da uno sguardo scaltro e diffidente, ci viene incontro, riconoscendoci, in quanto unici bianchi dallo sguardo sperduto.
Raggiungiamo il villaggio per comprare il necessario prima della partenza. Due ore di trekking ci dividono dal primo villaggio Penan in cui passeremo la prima notte.
Dopo trenta minuti passati a risalire una collina, grazie al caldo intenso, con temperature che superano i 30 gradi, e un’umidità dell’80%, i nostri vestiti sono intrisi di sudore.
Raggiunta la cima della collina la guida fa una sosta, stacca frutti colorati dagli alberi e li offre a noi per recuperare i liquidi persi.
L’umidità è asfissiante, le pause numerose.
Arriviamo a Long Kepang, tappa intermedia, dove siamo ospiti di una giovane coppia Penan e del loro figlio appena nato.
Riposiamo il necessario prima di dirigerci verso il fiume per un bagno rinfrescante e per eliminare il sudore dalla pelle.
La sera mangiamo riso e verdura prima di crollare sulle travi di legno della nostra stanza, la stanchezza ha battuto la scomodità.
Al nostro risveglio ci aspetta il tratto più duro. Dieci ore di escursione nella giungla per raggiungere il Long Salt, il villaggio dove risiede la nostra guida.
Non eravamo pronti a questo, soprattutto con zaini così pesanti. Ma l’imprevisto non ci spaventa e insieme abbiamo superato una dura prova sia mentale che fisica.
Dopo poco più di tre ore la stanchezza inizia già a farsi sentire, in più le scorte d’acqua finiscono.
Beviamo da piccoli torrenti marroni e mangiamo radici per combattere i batteri dell’acqua e pulire lo stomaco. La nostra guida conosce la foresta nei minimi dettagli e riesce a farci innamorare del suo equilibrio.
Dopo 10 lunghe ore, e con numerose vesciche ai piedi, raggiungiamo il villaggio di Long Salt.
La guida, salutata la moglie, ci mostra la nostra stanza. Questa volta siamo fortunati, un piccolo materassino è posto nell’angolo della stanza, possiamo dormire comodi.
Ci laviamo nel fiume prima di cenare con i più buoni noodles con uovo mai mangiati prima, forse era solo la fame.
Una magica antenna posta all’inizio del villaggio ci regala un debole segnale, per far sapere alle persone più vicine che stiamo bene.
Nei due giorni successivi ci immergiamo nella vita di questi indigeni della Malesia.
Visitiamo il loro villaggio, passiamo con loro la giornata tra pesca, raccolto e molto altro. Durante il giorno i giovani della tribù devono procurarsi il necessario per sfamare la loro famiglia.
Il pomeriggio dedicato alla pesca si passa a mollo delle acque del fiume, che per loro è fonte di vita. Durante il tragitto del ritorno raccogliamo la verdura che la natura offre, per condire il riso bianco pronto per la cena.
Sono stati giorni senza dubbio impegnativi, ma che ci hanno fatto riflettere molto. Scoprendo un mondo lontano dal nostro.
Il rientro in città è stato altrettanto duro.
Per evitare di rifare il tragitto, con i pesanti zaini in spalla, la guida ha suggerito una seconda opzione.
Con un’imbarcazione avremmo potuto navigare il fiume fino ad un piccolo villaggio più vicino alla costa. Da qui una jeep 4×4 ci avrebbe riportato a Miri.
Ma ovviamente non tutto è semplice come sembra.
Il fiume in secca ha reso la navigazione un vero travaglio. Ogni sasso o roccia più grande del dovuto blocca la piccola imbarcazione, così siamo costretti a scendere e sollevare la barca ed oltrepassare l’ostacolo.
Il tratto di fiume normalmente percorso in trenta minuti è durato quattro ore.
Aspettiamo sull’argine del fiume la tanto attesa jeep. Finalmente, dopo poco più di trenta minuti spunta un pick up. Saliamo in sette all’interno dell’abitacolo e un altra decina sul retro, coperti da un telo.
Altre quattro ore e trenta e raggiungiamo la città. Un miraggio. Non dimenticheremo mai questa avventura tra le terre incontaminate del Borneo malese.
Prezzi ed informazioni utili
I costi dell'escursione
Quota alla comunità: 50 Myr ( 10 euro in base al cambio)
Alloggio nella famiglia: 65 Myr a notte a persona (14 euro in base al cambio)
Guida: 100 Myr al giorno (21 euro in base al cambio)
Se il villaggio in cui alloggiate è raggiungibile dalla costa con l’utilizzo di jeep e barca il costo relativo ai mezzi è 300 Myr per il primo e 250 Myr per la seconda. L’imbarcazione è tipica del luogo e può ospitare massimo due persone.
Cosa portare con voi
Noi abbiamo visitato il villaggio Penan nel mese di agosto. L’umidità raggiunge il 90% e la temperatura si avvicina ai 30 gradi.
Per questa avventura abbiamo portato con noi:
- Magliette tecniche: una per ogni giorno di permanenza, il caldo e l’umidità elevata portano ad un elevata sudorazione.
- Pantalone lungo: da usare durante il trekking per evitare graffi e sanguisughe sulle gambe
- Repellente per zanzare: l’alta umidità e la presenza di fonti di acqua creano un territorio perfetto per le zanzare
- Salviettine umidificate: non esistono ne bagni ne docce, il bagno viene fatto nel fiume, delle salviettine umidificate posso salvarvi la vita
- Snack: noi abbiamo portato le barrette di Herbalife, per affrontare al meglio le giornate. Nonostante le energie usate gli unici pasti sono il pranzo e la cena.
- Batterie esterne: per ricaricare cellulari e macchina fotografica
- Contanti: i pagamenti vengono effettuati tutti in loco. Una piccola scorta anche per gli imprevisti
- Action cam: per riprendere questa avventura che difficilmente potrete rivivere
Piccoli suggerimenti per l'avventura con la tribù Penan
- L’agenzia ti mette direttamente in contatto con un membro della tribù, ma non sempre è possibile sapere da quale villaggio provenga la guida. La durata dei trekking può variare dalle due alle dieci ore.Noi purtroppo, essendo stati informati male, eravamo impreparati e con uno zaino troppo pesante. Portate con voi l’essenziale, così anche il tragitto per raggiungere la tribù risulterà più piacevole
- Preparate la vostra mente . Sarete in un villaggio isolato nella giungla dove non ci sono docce, bagni, ogni genere di servizio compresa la connessione
- I bambini più piccoli del villaggio sono molto timidi. Una fotografia potrebbe metterli in difficoltà, approcciate sempre con cautela.
- Contrattate sempre sui prezzi. Giustamente, gli abitanti della tribù, cercano di trarre il massimo profitto dai visitatori.
Pro e contro di un'avventura con i Penan
I vantaggi di questa escursione sono:
- Un’esperienza senza alcun dubbio unica. Vivere dei giorni a contatto con una tribù, che vive in simbiosi con la natura, fa riflettere sulla nostra vita
- Conoscenza di un mondo lontano e differente dal nostro
I contro sono:
- La guida cerca di trarre il maggior profitto dalla vostra visita. Questo avviene sia attraverso la vendita di souvenir che per poter partecipare ad attività “extra”, come le danze serali.
Questa avventura è stata una delle più singolari del nostro viaggio in Malesia. Successivamente ci siamo spostati verso il sabah per scoprire la sua fauna, alla scoperta del santuario delle scimmie nasiche, degli orangotango e del fiume kinabatangan.